Ti stai inserendo giorno dopo giorno nella realtà di Cava. Hai fatto sorridere tutti con la tua storia Instagram dalla villa comunale, un segno di quanto stai conoscendo il territorio. Sei l’ultimo arrivato nella rosa di mister Prosperi, ma subito titolare. Com’è questo impatto e come valuti il pareggio di Foggia?
«Sono davvero felice di conoscere e vivere Cava de' Tirreni. Io e mia moglie siamo persone che amano camminare, osservare, respirare un posto. Passare per la villa, vedere quei signori che giocano a carte… mi mette serenità prima di andare ad allenarmi. Per quanto riguarda il calcio, ogni giocatore vive di opportunità. Cava mi ha dato una chance e io l’ho colta al volo. Da svincolato non potevo permettermi di farmi trovare impreparato. Dentro di me sentivo un fuoco: prima o poi qualcuno mi avrebbe chiamato, e così è stato. Sono onorato di essere qui e cerco ogni giorno di rispettare questo mondo, questa gente, la Cavese e la sua storia. Sul pareggio di Foggia dico che dobbiamo guardare alla continuità: per raggiungere certi obiettivi serve un percorso solido. La società è stata chiara: dobbiamo mantenere la categoria. Il pari con una diretta concorrente va preso in questo senso. Quando non vinci, l’importante è non perdere.»
Sei arrivato dopo la sconfitta nel derby e hai vissuto la ripartenza della squadra: da Cerignola è iniziata la serie positiva. Con la tua esperienza stai dando equilibrio, unito alla crescita di Awua e alla nuova posizione di Orlando. Come vivi questo momento? Cosa pensi si debba ancora migliorare?
«Sarò sincero, dal primo giorno ho avuto la sensazione che questo ambiente non meritasse quella classifica. Non è che Luciani arriva e i risultati arrivano. Le prestazioni c’erano già. Certo, ci sono stati errori pagati caro. Quando sono entrato a S. Lucia ho trovato ragazzi pronti a lavorare, uno staff tecnico che cura ogni dettaglio, fisioterapisti, medici, magazzinieri, addetti, tutti perfettamente organizzati. Questo porta risultati. Secondo me non dobbiamo togliere nulla, né fare passi indietro. La squadra ha raggiunto una maturità che permette di capire i momenti della partita e cosa portare a casa senza rischiare il negativo. Il mister sta trasmettendo tanta intelligenza tattica, e la sta mettendo nella testa dei più giovani. È un lavoro complesso, ma sta funzionando. C’è entusiasmo, è vero, ma quando entriamo sul campo tutto si spegne: si va a 300 all’ora.»
Parliamo di mister Prosperi. Che rapporto hai con lui? Che tipo di allenatore è? Te lo aspettavi così?
«In Serie C si è sempre parlato bene di lui, sia come uomo che come professionista. Io non lo avevo mai affrontato in C, lo avevo incrociato solo anni fa, quando ero al Lumezzane e lui al Taranto. Con lui ho un ottimo rapporto di lavoro e stima: ci confrontiamo, analizziamo gli errori, lui non ha problemi a dirmi ciò che devo migliorare. Sta cercando di proporre un calcio che stiamo iniziando ad automatizzare, e credo si veda già qualcosa. Ovviamente, contro squadre molto attrezzate possiamo andare in difficoltà, ma vi dico che mi sto divertendo: quello che proviamo in settimana spesso riusciamo a portarlo in campo la domenica. Lavora tantissimo, e sono convinto che i frutti arriveranno. C’è un gruppo di ragazzi che dà tutto, davvero tutto, per questa maglia. Per questo, tutti insieme - noi, la stampa, la gente - dobbiamo andare diritti verso l’obiettivo. Toglierci una soddisfazione comune sarebbe bellissimo.»
Sei arrivato da svincolato ad ottobre e sei stato subito pronto in un momento difficile per la squadra. Come hai vissuto quel periodo di inattività? E come mai, secondo te, nessuna squadra ti aveva ancora chiamato?
«È una domanda che mi aspettavo e a cui faccio sempre fatica a rispondere senza sembrare presuntuoso. Posso dire però come mi sono allenato. Quando vedevo che il telefono non squillava, quando il mio procuratore mi diceva delle porte che si chiudevano, quel fuoco dentro di me si alimentava. E allora prendevo la borsa e andavo in palestra. Oppure uscivo in bicicletta per trenta chilometri. Oppure caricavo una “binetta”, lì ad Avezzano, e mi mettevo a spingere. Sentivo il bisogno di toccare il campo e ho chiesto alla squadra della mia città, l’Avezzano - oggi rifondata e ripartita dalla Promozione - di potermi aggregare. Li ringrazierò sempre: presidente, dirigenti, mister Pagliarini e tutto lo staff. Mi hanno trattato da professionista, facendomi tenere la condizione e il ritmo. Facevo anche tre sedute al giorno: la mattina in palestra, poi lavoro in campo, poi ancora forza. Avevo bisogno di sentire il motore acceso. Perché nessuno mi ha chiamato? Non lo so. La Serie C oggi guarda molto ai giovani, e lo capisco. Io ero lì alla finestra, aspettando un’opportunità. Cava me l’ha data e cercherò di ripagare tutto questo fino all’ultimo giorno.»
A inizio stagione la squadra giocava bene ma subiva molto, mancava equilibrio. Con il nuovo assetto difensivo - tu, Cionek e Nunziata - la Cavese ha ritrovato stabilità. Qual è il segreto di questo nuovo equilibrio?
«Secondo me quando una cosa funziona è perché ci sono 25-27 ragazzi che remano tutti dalla stessa parte. Se oggi porto questa maglia, tra virgolette “da titolare”, è perché dietro di me ci sono compagni più forti di me che meritano quanto me e che ogni giorno mi spingono a dare di più. Il segreto, dunque, è il lavoro quotidiano. Non molliamo un secondo, siamo concentrati dal primo all’ultimo minuto di ogni allenamento. Poi c’è la mano del mister e dello staff. Prosperi studia tutto: ci mostra come affrontare gli avversari, dove portarli e dove non farli andare. Ci dà un’identità. In più, con la nuova posizione di Orlando e la crescita di Awua, abbiamo trovato maggiore copertura e protezione davanti alla difesa. E questo ci permette di essere più compatti e di soffrire meno. Ora c’è un’alchimia forte dentro lo spogliatoio. Si sente. E spero che i risultati continuino ad arrivare, perché è davvero bello vivere un gruppo così.»
Alessio, noto che spesso sei tu a battere corner e punizioni. Non è comune vedere un difensore incaricato dei piazzati. È una tua qualità storica o qualcosa che hai iniziato qui?
«Quando sono arrivato, ho parlato con Umberto, il vice allenatore. Volevano conoscermi in fretta, capire che tipo di calciatore fossi. Gli ho spiegato che nella mia carriera ho fatto un po’ di tutto: chi mi conosce mi ha sempre definito il “manuale del calcio”, uno che fa ciò che l’allenatore chiede. In passato ho giocato più avanzato e ho battuto diversi calci piazzati. Quando Orlando si è infortunato, il mister ha deciso di affidarmi le palle inattive. La settimana scorsa gli ho chiesto di poter provare qualche battuta. A Santa Lucia il campo è più stretto e diverso dallo stadio, quindi abbiamo fatto una sessione con cinque corner a destra, cinque a sinistra e cinque laterali. Lui era in area con Annunziata a provare gli attacchi alla palla. Ho cercato di prepararmi bene per la partita. Poi sì, abbiamo anche preso due gol in allenamento (ride), ma sono cose che succedono. Il mister ha creduto in me e io ho sentito il bisogno di dimostrarlo.»
Contro il Picerno vi abbiamo visto passare al 4-3-3 durante la rimonta. Tu hai spinto molto da terzino destro. È uno scenario che potremmo rivedere?
«Io nasco centrale, ma nella mia carriera sono stato spesso “discriminato” per la fisicità e mi sono reinventato terzino destro. Correre l’ho sempre saputo fare, e quella è una qualità meno allenabile della tecnica. Contro il Picerno quella soluzione è nata in corsa: il mister conosce la mia storia e sa che posso giocare terzino. È stata una mossa immediata, non preparata, ma ha funzionato. Sì, è una soluzione che potrebbe essere riproposta. In certe partite può servire, soprattutto quando c’è bisogno di spingere sulla fascia.»
A Foggia, rispetto alle ultime gare, avete saltato spesso la prima costruzione, cercando Boffelli o la palla lunga sulla destra. Era una scelta precisa o una necessità?
«Siamo partiti con l’idea di giocare palla, come sempre. Il mister ci invita spesso a costruire dal basso quando ci sono le condizioni. Ma appena siamo entrati in campo ci siamo resi conto che era impossibile: il campo non era in condizioni per farlo. La palla scivolava, rimbalzava male, non si riusciva a controllarla. Loro venivano uomo su uomo e non trovavamo linee “pulite”, quindi abbiamo cercato le giocate in profondità. In più, abbiamo un’arma importante: Amerighi. Ha una terza linea di corsa notevole, una fisicità che ci permette di vincere duelli e seconde palle. Quando qualcosa ti dà certezze, è giusto sfruttarlo. Il mister decide sempre in base al rischio: se si può costruire, costruiamo. Se non si può, si va lunghi. A Foggia era la scelta più logica per non mettere la squadra in difficoltà. Ora dobbiamo guardare la concretezza del risultato.»
Domenica vi aspetta l’Atalanta U23, una squadra completamente diversa rispetto al Foggia e su un campo altrettanto diverso. Loro rappresentano il miglior progetto U23 in Italia, hanno un tecnico giovane con esperienza in Serie A e individualità importanti, tra cui Vavassori. Che partita ti aspetti? E quanto temete un attaccante così incisivo?
«Analizzare l’Atalanta U23 mi mette una certa preoccupazione - la chiamo “preoccupazione positiva” - perché mi obbliga a restare concentrato al massimo. L’anno scorso li ho affrontati, ma non ho giocato nessuna delle due partite. Sono un'élite. Ragazzi scelti fisicamente e tecnicamente, costruiti per arrivare in alto. E infatti i risultati si vedono. Dietro di loro c’è una società che ha creato un impero con basi solide. Non è un caso se chi esce dall’Atalanta arriva spesso al calcio che conta. Il progetto U23 sta funzionando benissimo, e quest’anno si vede ancora di più, c’è stato un cambio tecnico che ha dato un’impronta chiara, più europea. Sono tutti giocatori con qualcosa in più sul piano tecnico. Se non li affronti sapendo che devi ragionare in tempi strettissimi - stop, passaggio, tiro, velocità di esecuzione - rischi di pagarla cara. Oggi lo dicevo ai miei compagni: se pensate di affrontare una “Primavera”, stiamo già sbagliando approccio. Loro sono ragazzi forti, veri giocatori di Serie C. Serve molta attenzione. Se pensiamo di fermarli solo perché sono giovani, prendiamo una batosta. Dovremo essere concentrati al massimo, tutti, dal primo all’ultimo minuto.»
Arrivi da un altro girone e sei nuovo di questo C: che idea ti sei fatto dell’equilibrio attuale, soprattutto nella parte medio-bassa della classifica? E cosa pensi della quota salvezza, che quest’anno potrebbe essere più alta?
«È un girone bellissimo proprio perché è cortissimo. Con pochi punti puoi trovarti molto sopra o molto sotto. Ma voglio essere chiaro: noi guardiamo più dietro che avanti, perché è giusto così. L’obiettivo dev’essere sempre la salvezza, con i piedi saldi a terra. Non so se la quota salvezza sarà più alta rispetto all’anno scorso, ma il ritmo è notevole: tante squadre stanno andando forti e tutte le contendenti riescono a mantenere continuità. Noi veniamo da cinque risultati utili su sei partite, con prestazioni importanti, ma secondo me a Foggia abbiamo un po’ pagato lo sforzo mentale delle settimane precedenti. Non amo fare confronti tra i tre gironi perché li ho giocati tutti e so che ognuno ha difficoltà diverse: dipende dai campi, dalle piazze, dalle atmosfere. Giocare a Feralpi-Salò con 1.500 persone non è come giocare a Cava con 10.000. Le motivazioni cambiano, e la motivazione fa la differenza in Serie C. Per questo ritengo che essere in un gruppo forte, coeso, con giovani ed esperti che si completano, sia un valore enorme. Io sono felice di essere in questa squadra: stiamo bene insieme, ci divertiamo ma sempre con la testa sulle spalle. Questo è un girone complicato, ma noi siamo un gruppo tosto.»
Si vede il gagliardetto della Cavese appeso nella tua salumeria di famiglia, la tua “sala dei ricordi”. Raccontaci questa tradizione.
«È vero, l’ho portato subito con me. È un gesto che per me ha un valore enorme e che rappresenta qualcosa che mio padre mi ha trasmesso. Quando ero giovane e giocavo con la Lazio, andammo insieme alla sede per un incontro. Mentre aspettavamo, c’era una teca piena di gagliardetti. Il primo in alto era quello di Fiorentina-Lazio del 4 ottobre 2009, la mia partita d’esordio in Serie A. Sembrava un segno del destino. Chiedemmo se fosse possibile averlo, e il presidente ce lo regalò. Da lì mio padre ha voluto che conservassimo tutti i gagliardetti della mia carriera, insieme a due maglie speciali: quella dell’esordio in Serie A e quella della promozione. Potrei fotografare un’intera parete. Ma ogni gagliardetto rappresenta un pezzo della mia storia, un passo del mio percorso. Portare quello della Cavese nella nostra collezione è stato naturale. Significa rispettare la maglia che indosso oggi, la gente che la sostiene e la storia che c’è dietro. Cerco sempre di farmi conoscere come Alessio prima ancora che come Luciani: essere autentici, nella vita e nel calcio, fa fare grandi cose.»
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